Quanti di noi sanno cosa sono sono i giochi di ruolo? Il termine, utilizzato per identificare una storia all’interno della quale un gruppo di personaggi coopera per portare a termine determinate mansioni, era in uso già agli inizi del novecento ed era, in qualche modo, collegato al teatro della spontaneità. Nonostante la crescente popolarità e utilità in psicoterapia, non sono un’invenzione moderna.
Negli Stati Uniti se ne parlò su tutti i giornali nell’agosto del 1979 quando James Dallas Egber, ragazzino di 16 anni, scomparve, venne ritrovato, ma un mese dopo il ritrovamento si suicidò. Il momento in cui le due storie, quella di James e quella della demonizzazione dei giochi di ruolo, si intrecciarono e si annodarono fu la dichiarazione dell’investigatore privato, chiamato dalla famiglia a far luce sulla morte del figlio, che affermò che l’adolescente si era perso nei tunnel sotterranei della scuola proprio durante una partita di gioco di ruolo dal vivo insinuando, così, una presunta e indimostrata relazione causale fra il suo interesse per il gaming e il dramma personale.

Da questo momento, è il 1983, inizia una campagna di demonizzazione del gioco di ruolo, soprattutto negli ambienti più tradizionalisti e bigotti delle confessioni religiose protestanti, per l’uso di materiale letterario “paganeggiante” (sono molte le figure che rimandano a divinità, demoni e entità magiche, come da classico contesto fantasy). Iniziano a proliferare organizzazioni votate all’abolizione: prima fra tutte la Bothered About Dungeons and Dragons fondata da Patricia Pulling, madre del ragazzo suicida. Pochi anni dopo, nel 1990, è la American Association of Suicidology a negare categoricamente la possibilità di relazioni causali fra il gioco di ruolo e il suicidio.
Tuttavia, se in America la questione si è abbastanza sopita, nel 1996, un avvocato veneziano ha attribuito il suicidio di due ragazzi a questi giochi e, solo tre anni dopo, le indagini, nuovamente, hanno portato alla conclusione che non c’era stato alcun nesso causale fra le morti e i passatempi di fantasia.
Quando
I giochi di ruolo nascono negli anni ‘70 negli Stati Uniti grazie a Gary Gigax e Dave Arneson, inventori di Dungeons&Dragons. L’idea nasce da una modalità di psicoterapia molto in voga al tempo: lo psicodramma analitico.

Perché
L’utilizzo del gioco permette di delimitare e conoscere la dimensione inconscia, le relazioni e le identificazioni rendendole più fluide e consapevoli.
Oltre a migliorare la capacità di gestione delle emozioni, può essere molto utile per la comprensione delle dinamiche affettive. Questo avviene con l’ausilio di semplicissime rappresentazioni, suggerite di volta in volta dal terapeuta.
Come
Il terapeuta ed il paziente “giocano di ruolo”, cioè il terapeuta interpreta il paziente, mentre il paziente interpreta una figura per lui importante o problematica (per esempio il padre, la madre, il datore di lavoro, o la moglie, un vicino).
Nella pratica, ogni giocatore interpreta un personaggio con caratteristiche in linea con il mondo immaginario in cui si vogliono ambientare le sue storie (fantasy, horror, fantascientifico, o storico). Uno dei giocatori fa da narratore (o Master, in gergo), esponendo la storia, descrivendo il mondo fantastico, interpretando di volta in volta i vari personaggi che popolano questo mondo e esplicitando ai giocatori cosa succede come conseguenza di quello che loro affermano di voler fare. Per definire le “regole” di questo mondo (ad esempio, cosa succede se un personaggio prova a tirare un sasso, assaltare un castello, fare una magia) esistono dei manuali appositi.
Si trasformano le caratteristiche e abilità di ogni personaggio (intelligenza, destrezza, o forza) in un punteggio numerico e con l’aiuto dei dadi si confronta quanto esce con le caratteristiche. Il sistema matematico basato sui dadi è stato preso in prestito da Gigax dai War Games, giochi da tavolo che simulano battaglie e combattimenti (storici e non). Una volta creata una cornice “materiale” in cui muoversi, i giocatori sono liberi di interagire fra loro e con il Master in una sorta di “teatro di improvvisazione” in cui ognuno parla come se fosse il personaggio che sta interpretando.
Hikikomori: di cosa parliamo?
È un termine giapponese che significa “stare in disparte”. Identifica chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno. L’hikikomori può esser visto come il risultato di una cattiva gestione delle tecnologie. Quando prevalgono l’isolamento e la rinuncia all’interazione, l’uso delle nuove tecnologie è fuori controllo. In un periodo storico in cui la socializzazione è a rischio, il gioco di ruolo e di società riporta al centro dell’attenzione l’interazione, importante nel mondo adulto, ma fondamentale in quello dei ragazzi.

Le persone con tendenza a fuggire dalla realtà lo faranno con ogni mezzo, e oggi la tecnologia può essere uno dei mezzi che queste persone usano per evadere. È impossibile, però, generalizzare sui problemi della socializzazione perché le cause sono le più varie e le forme di disagio vanno contestualizzate. Per esempio, un ragazzo con patologia psichiatrica grave, come la psicosi, non ha nulla a che vedere con quello timido.
La cartina di tornasole più importante che si può fornire però è, banalmente, calcolare quanto del suo tempo libero un adolescente passa ad interagire con i suoi coetanei e quanto ne passa da solo o con interazioni virtuali. Molte ore senza rapporti significativi associate a scarsa integrazione, anche nel contesto scolastico, dovrebbero essere un importante campanello di allarme.
Una precisazione è dovuta: spesso, viene chiamato gioco di ruolo ciò che non lo è. Il vero gioco di ruolo è quello che porta le persone a sedersi intorno a un tavolo e a interagire tra loro in modo ricco.
Un esempio di quanto possa essere d’aiuto viene da Paolo (nome di fantasia), un bambino con difficoltà ad interagire in gruppo perché non rispettava il suo turno e non sapeva perdere, ma che, seguito dalle educatrici professionali, dall’alto dei suoi 5 anni, è arrivato a dire che “lui era il vero forte perché aveva perso, ma si era controllato”.
Naturalmente, se da un lato il gioco ha valenza terapeutica, va comunque considerato per quello che è: uno strumento di divertimento che, per le caratteristiche che ha, è da ritenersi sano.
In altre situazioni il rapporto è con una macchina, qui si ritorna ad avere contatti umani.
Luisa Perona